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mercoledì 23 aprile 2014

L'indipendentismo veneto e la fine della storia di Fukuyama


L’uomo, misura della storia, sua unica misura.
L. Febvre

Le accuse di a-storicismo e di anacronismo sollevavate da una pletora di suorine progressiste agli irredentisti veneti suonano quasi come un complimento. Il saggio di Francis Fukuyama intitolato The end of history, pubblicato nel 1992, mette il capello sulla questione, tanto da essere diventato ormai l’imprescindibile “bibbia” simil-storicista per tutti coloro che vogliano applicare alla storia le proprie particolari esigenze (benché taluni di loro non sappiano nemmeno della sua esistenza, ma è il loro progresso indottrinato che prevede l’ignoranza quale dominus per poter occupare una posizione di militanza).

Fukuyama, nella fattispecie, pur ammettendo una certa dinamica dialettica progressista, non può che constatare il compimento democratico della storia in quanto spazio unidimensionale in cui l’uomo non si evolve d’accordo con la propria coscienza, ma diviene semplicemente ciò che è destinato a diventare. Secondo il filosofo d’oltreoceano l’uomo (forse, come tutti quelli della sua generazione da quelle parti, “atavicamente” traumatizzato dall’esito della II guerra mondiale), ultimata la sua scalata alla storia, si è finalmente compiuto nell’incarnazione di una staticità che non prevede ulteriori miglioramenti. E’ la “fine della storia”, l’incastro perfetto e non più perfettibile, di tutti quei pezzi il cui ontico puzzle era già “fatalmente” preordinato.



Solo postulando il principio di questo “positivo” punto di vista possono infatti avere senso le accuse che, da destra a sinistra, piovono sull’idea secessionista veneta (ma anche catalana, scozzese o quebechiana): non accettare le sentenze storiche perché lesa maestà di una memoria che viaggia per conto suo verso la liberazione e la democrazia del bengodi, che non è fatta dagli uomini e da tutto ciò che potrebbe influenzarne l’agire, ma che si pretende fissa e immota, che vive di vita propria, che muta esclusivamente verso un’uni-versalità già prevista, sembra essere oggi l’unico atteggiamento “serio” con cui ci si può accostare prona-mente ad essa. Leibniz docetLa storia come prevenzione del divenire! Ecco l’ultima trovata dei sofferenti eterni in un’età post-religiosa, post-laica, post-post, galleggiante, per evitare spiacevoli sorprese (con buona pace della scuola storica dei Les Annales e di quel Le Goff che ci ha lasciato in questi giorni). 

Se la storia diventa quindi un “soggetto” indipendente dalla volontà umana, allora si può anche atteggiare il convincimento della “fine della storia” quale suo ultimo stadio evolutivo. 
Ma l’uomo è un’altra cosa. E più specificatamente, la storia stessa è un’altra cosa: inscindibilmente connessa all’umanità che la qualifica e la costringe alla vita, seppur quella fossilizzata nella memoria, essa non può sussistere autonomamente, slegata dal soggetto incaricato di darle forma. Essa è, con buona pace dei democratici statici-progressisti, un continuum inarrestabile in perpetuo divenire di fisionomie, sedimentazioni e incorporazioni. Tralasciando così le annose questioni di metodo storico-filosofico, le uniche che però finiscono per sostanziare nella premessa ogni cronaca che voglia applicarsi al concetto per nobilitarsi, pare il caso di ricordare blandamente alcuni slanci di quella stessa “storia” per rinfrescare la memoria a quei fatalisti che ne hanno invece postulato la finalità. 

E’ pur vero che lo stimolo, nemmeno troppo velato, che ha incendiato la voglia di separare il Veneto dal resto dell’Italia, proviene da un malcontento promosso dalla grave situazione economica. Un sentore di crisi – gli schei – che hanno minato in profondità quel benessere (in una società “economica”, il termometro del benessere non può che adeguarsi al misurato in termini economico-finanziari, specie nel "ricco" nord-est) all’interno di cui è pasciuto sinora ogni scatto volitivo del pensiero. 
Finché “se sta ben”, o meglio, dal momento in cui non ci si sente mancare in quelle certezze rassicuranti su cui si è potuto “contare” sino ad ora, tutto bene. E' noto, a tal proposito, che il pensiero sembra svegliarsi dai propri torpori solo quando una difficoltà impone di utilizzarlo come possibile ri-medio ad un’angosciante difficoltà. Ad ogni modo, assodata la motivazione economica, nessuno ha mai, da Omero a Tito Livio, per giungere infine ai meno remoti Napoleone e Metternich, messo in dubbio che i Veneti costituissero un popolo. Cosa che non si può dire invece dei lombardi e degli emiliani, dei toscani o dei napoletani. Il “veneto” è una lingua romanza al pari dell’italiano, del francese e dello spagnolo (non un dialetto quindi. E volendo dirla tutta, è anche una lingua meno costruita ed artificiale dell’”italiano” trecentesco o di quello del Bembo). 

Il Veneto non viene annesso all’Italia per mano della matura visione piemontese, bensì viene ceduto a seguito della sconfitta austriaca nella battaglia di Sadowa e degli interessi di Napoleone III (che l’Italia abbia ottenuto il Veneto nel 1866 dalla Germania nascente, potrebbe evocare dopo 150 anni, in una partita di giro, una speculare reazione: la Grande Germania - quella del 1848, quella dell’anschluss - consente l’entrata del Triveneto nella sua sfera d’influenza, e con esso il suo pezzo di Mediterraneo).

E’ altrettanto vero, qualche ragione, seppur stonata, ce l’ha anche chi pensa di essere “arrivato alla fine”, che il Veneto è oggi parte integrante di quell’Italia per cui il celeberrimo proposito di D’Azeglio pare essere rimasto ancora una vaga intenzione. Ed è vero pure, allo stesso modo, che il sentimento patriottico, grazie anche al tributo di sangue versato nelle guerre del Novecento, rimane ancora oggi fortissimo in quella “regione”. Eppure la storia che alcuni vorrebbero ridurre ad un’unidimensionalità sterilizzata dalle loro convinzioni è destinata, prima o poi, a mutare nuovamente di segno – o forse lo sta già implicitamente facendo -. Si tranquillizzino quindi tutti coloro che, a ragione, marchiano il pittoresco e farlocco referendum indipendentista, sotto il dogma dell’incostituzionalità (il superiore ordinamento dell’Europa, riconosciuto dall’Italia, dovrà anche inchinarsi a questo genere di decisioni: se nascesse come Stato Federale l’Alpe Adria - Baviera, Carinzia, Stiria, Alta Austria, Burgenland, Slovenia, Croazia, Triveneto, Lombardia e Ungheria dell’ovest -? Non piacerebbe ai Grandi d’Europa, perché rischierebbe di diventare più grande di loro!). La storia mostra, molto più semplicemente, che per cambiare il “sancta sanctorum” delle Costituzioni basta una partita d'inchiostro e nulla più, così come per spostare le gerarchie valoriali - Nietzsche docet - serve solo che cambi il vento della convenienza. 

Spiace per i “pensatori” alla Fukuyama, quelli “autenticamente democratici” che criticano i totalitarismi e vorrebbero al contempo fornire una visione completa, assoluta, totalitaria del mondo, ma la storia eppur si muove. E siamo certi che i valori oggi santificati dalla doxa degli "ultimi uomini" muteranno con essa, mentre forse, la percezione di essere altro rispetto all’Italia, proprio in virtù di quelle dinamiche sedimentazioni storiche, permarrà ancora, benché sotto altri e magari più sottili aspetti, nel “Popolo veneto”.

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