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mercoledì 3 giugno 2015

Perché il risparmio castra il lavoro? Rompicapi borghesi...

L’etica borghese del risparmio si sta piano piano sgretolando, svuotatasi delle proprie solenni significazioni è finita per trasvalutarsi sempre più in un disvalore da avversare.
A dirla tutta, come peraltro spesso accade nelle cose che attengono alla morale, essa muta di segno perché non è più tale da servire l’uomo e, perdendo quindi la propria utilità, si è trasformata in una zavorra da cui velocemente liberarsi, insostenibile peso per quel “virtuoso” meccanismo di crescita a cui l’uomo ha voluto placidamente assoggettarsi: la “saggezza economica”.

La descrive linearmente Alain de Benoist: “si è solo ciò che si ha; la prova del valore è data dal successo materiale (…) ciò che caratterizza lo spirito borghese non è dunque soltanto la razionalizzazione dell’attività economica, bensì l’estensione di questa razionalizzazione a tutti gli ambiti della vita (…) da ciò l’idea che quel che non può essere razionalizzato sia inutile, superfluo o inesistente”.
Per il borghese della prima ora, assieme alla conformità e all’allineamento (si pensi ad esempio a quegli omini dell’Olanda calvinista, tutti egualmente vestiti di nero, dipinti da Rembrandt o da Vermeer), all’ordine e al calcolo, era un valore da testimoniare nella quotidianità pure il risparmio, o per meglio dire la parsimonia. Leon Battista Alberti, ad esempio, che non era né uno straccione, né tantomeno un uomo di punta della tanto vituperata “decrescita” odierna, sosteneva che si potesse diventare ricchi anche risparmiando (l'ostentazione della ricchezza non era vista eccessivamente di buon occhio all'epoca).

Il risparmio, come l'invenzione borghese del centrino che mira a preservare l’integrità di ciò su cui si appoggia, rispondeva alle esigenze di una nascente classe economico-sociale ancora troppo insicura ed inconsapevole delle proprie potenzialità. Della serie: accumulo per arricchirmi e magari comprarmi con quei risparmi anche i "titoli" che mi faranno entrare nella buona società dalla porta principale! D'altro canto, solo chi soffre del presente ha bisogno di rivolgere il proprio sguardo verso un “futuro” che ancora non è, luogo idealizzato anche dal cristianesimo (l’aldilà), e dalle moderne istanze democratiche (il progressismo e forse oggi il dominio di una techné che nell’innovazione continua vorrebbe risolvere la vita in un’accumulazione crescente di “ben-essere”), in cui la promessa di “stare meglio” possa sublimare l’angoscia verso ogni presente. Quel borghese era in fondo un uomo pio, allineato, ordinato, frugale per necessità: egli ha fede nel futuro, ma ne è al contempo timorato. Non sarà forse un caso se, in un noto adagio popolare, l’aristocratico diventa convessamente all’Accumulatore, il Dissipatore.

L’aristocratico invece, a differenza del parvenu borghese, potrà forse andare in rovina e finire magari in mezzo ad una strada, perdendo così tutte le proprie fortune, ma in quanto nobile non correrà mai il rischio di smarrire il proprio titolo, laddove al contrario l’”accumulatore” ha la necessità di confermarsi giorno dopo giorno, perché solo quel che possiede è in grado di convalidarne l’identità.
Il borghese è dunque un decadente in sé, fisiologicamente. Il nobile un decadente per volere!
Oggi quel risparmio che ha permesso l'ascesa della classe borghese non è però più un valore. La società si è enormemente trasformata. Essa, per riuscire a reggere sulle proprie spalle questo assurdo moloch economico, si è trasformata da una società di produttori in una società di consumatori. Non è infatti del lavoro dei "produttori" che si nutre, bensì della capacità che l’uomo ha di ingoiarne, ad un ritmo sempre più insostenibile e frenetico, i superficiali prodotti. In fondo: “bisogna fare girare l’economia!”.
L’uomo infatti non produce più quello che gli serve per vivere; per produrre (e lavorare quindi) deve innanzitutto consumare: “non si produce più per consumare, ma si consuma per produrre”.
risparmiare lavoro
Segnando un’inversione concettuale con l’intera “filosofia economica classica”, oltre che col buon senso, quest’affermazione demenziale dice che, come i tubi digerenti si lasciano attraversare da ogni scarto senza opporre resistenza, dobbiamo mangiare anche quando non abbiamo fame, uscire quando vorremmo magari rimanere in casa, comprare quando non ne sentiamo alcun bisogno. 

In tal modo anche il risparmio diventa oggi una condizione d’indigenza, un nemico contro cui combattere (deflazione). Come disse infatti Keynes: “ogni volta che risparmi 5 scellini togli a un uomo un giorno di lavoro”.
L’equazione è così a portata di sensazione: se risparmi non fai girare l’economia e quindi, penalizzando il lavoro, crei disoccupazione. Se non compri non lavori (è paradossale che, ormai, nell'immaginario collettivo, questo irrazionale mostro logico abbia assunto il sinonimo di "economia reale").

Di fronte ad un irrisolvibile aut aut, ci siamo cacciati, col tonto ottimismo che contraddistingue ogni cattiva coscienza, in un cul de sac senza fondo, per cui il buon lavoratore, che per natura vuole anzitutto un’occupazione, dovrà acquistare il frutto del proprio lavoro per continuare paradossalmente a lavorare.
Un do ut des infinito che dà sempre somma zero. Mangiamo ciò che caghiamo, e caghiamo ciò che mangiamo: finalmente la tautologia eretta a realtà!
E ci sarà forse anche il tempo per ghignare, quando sarà chiaro a tutti che ogni bisogno, anche quello “nobile” di lavorare, crea esclusivamente maggior dipendenza dal bisogno stesso. L’art pour l’art si è finalmente nobilitata in un nonsense monomaniacale: “consumo e devo spendere per lavorare”.

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