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giovedì 7 gennaio 2016

Maupertuis, Crécy e la cavalleria aristocratica: viva i perdenti!


nel nobile la persona volgare disprezza l’irragionevolezza o ragionevolezza stravagante della passione, soprattutto quando è indirizzata su oggetti il quale valore le pare totalmente fantastico e arbitrario.
F. W. Nietzsche

Talvolta la sconfitta vale più di una vittoria, perché l’uomo non si misura, come vorrebbe invece la classe ragionier-borghese imperante, erede di un “certo” positivismo anglosassone, esclusivamente attraverso i risultati che ottiene (le parole se le porta via il vento, ma anche i fatti si riducono alla soggettività di chi vi assiste, come già Nietzsche sapeva bene: “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”, e come Einstein e Heisenberg hanno in seguito certi-ficato “scientificamente”).
E infatti la sconfitta e la vittoria, o il successo se si preferisce, non possono essere due unità di misura “serie”. Persino nelle competizioni sportive che, giocoforza, debbono piegarsi al volere del risultato, esistono esempi lampanti di come la sconfitta sia solo una delle tante discriminanti per l’uomo che voglia davvero interrogarsi sull’uomo (vedi, ad esempio, l’”aristocraticanazionale brasiliana ai mondiali del 1982).

“Sconfitta” e “vittoria” non sono nemmeno valori “morali”. Servono piuttosto a rassicurare quegli uomini che abbisognano sempre dell’oggettività per poter giudicare senza farsi giudici; persone incapaci di diventare “unità di misura”, ma che tuttavia vogliono trovare all’esterno una sicura valutazione per evitare di creare da sé stessi i propri giudizi. In tal senso la vittoria gli è funzionale perché banalizza la vita, la rende a-problematica, sicura di essere vissuta, perfettamente gerarchizzata, piegata a fittizi paradigmi riconoscibili e ben misurabili!.
Gli uomini, infatti, a differenza di tutti quei “fattoni” che hanno “voluto” delegare all’impersonale fatto il compito di valutare la bontà dell’essere umano, non sono una quantità. Da questo punto di vista, gli individui, checché ne dica l’insicura scienza che - dalle galileiane qualità primarie in poi -, tutto vuol rischiarare per con-prendere, non sono riducibili, meccanicamente, all’oggettivo calcolo matematico, né all’altrettanta voglia di quantificazione che presiede ai fatti (questo modello volgarizzante l’essere umano ha tuttavia “vinto” la partita con la storia: Von Mises, nella sua fredda brutalità, può tranquillamente parlare di persone che valgono 300 mila o 1 miliardo di dollari senza scandalizzare gl’”indigenti umani”).

Ma non sempre le cose sono andate così. La cavalleria francese, ad esempio, venne pesantemente sconfitta a Crècy (1346) e a Maupertuis (1356). Eppure, quelle sconfitte, non furono paradossalmente delle “vere” sconfitte.
Se molti cavalieri persero quelle iniziali battaglie della guerra dei Cent’anni, e con esse spesso anche la vita, guadagnarono tuttavia in valentia, in dignità. La medievale cavalleria francese venne infatti sbaragliata perché non volle accettare le nuove dinamiche della guerra “moderna”, rimanendo, anche a costo della disfatta, fedele al suo ruolo e al suo sentire “aristocratico”. Un termine, quello “aristocratico”, che non si riferisce esclusivamente all’appartenenza di classe, ma è anzitutto sinonimo di un sentire comune, di un gusto “morale”, per dirla con Nietzsche: “il non volersi fare diversi da ciò che si è”.

La guerra, specie quella medievale, era infatti una questione per soli nobili. Un gioco crudele d’invasati adolescenti se si vuole (il trovatore Bertrand de Born ne fu un privilegiato ammiratore: “la vista di gesta belliche mi procura una grande allegrezza”), tuttavia quei fieri cavalieri sapevano bene chi erano e cosa volevano. In tal senso, le battaglie di Maupertuis e di Crécy non sono unicamente vicende da annotare sugli annali di qualche sbadato cronista, bensì simboliche manifestazioni di uno stile esistenziale morente, che probabilmente non ha mai attecchito nei desideri degli uomini, specie sulle democratiche masse calvinistizzate ubriacate dall’american way of life e dalle loro elementari logiche legate al risultato e al successo arido. A Maupertuis, come poi anche a Nicopoli, non morirono solo uomini in armatura, perì soprattutto un sentire, un gusto morale, una dignità aristocratica: la convinzione che, al di là dei fatti, non si può vincere davvero se per farlo si deve sacrificare ciò in cui si crede, ciò che si è e che si rappresenta.

cavalleria aristocratica

In quelle due battaglie, gl’inglesi, già disposti ad accettare la logica utilitarista del tornaconto n’importe quoi, ingaggiarono mercenari e parte della popolazione imbelle (denominata “liberi uomini d’Inghilterra”) per vincere la “pesante” cavalleria di Re Filippo VI e di Giovanni il Buono (fatto prigioniero dagli inglesi proprio a Maupertuis e sulla parola lasciato libero di tornare a Parigi per presenziare agli Stati Generali, decide di far fede al proprio patto e torna in prigionia a Londra. Per l’”aristocratico” Giovanni la parola data coincideva con la stessa legge e l’onta maggiore sarebbe stata quella di “perdere la faccia”). A quell’epoca, secondo la convenzione della società tripartita in "stati", la guerra era cosa per soli nobili, tuttavia gli eserciti plantageneti non vinsero esclusivamente perché il nobile “duro e puro” francese si rifiutava di far partecipare al “gioco dei giochi” il popolano e il plebeo. Vinsero perché cambiarono le regole d’ingaggio in battaglia. E così i mercenari e i plebei assoldati da Edoardo III d’Inghilterra, sfruttando la gettata dell’arco lungo di nuova generazione e rifiutando di battersi “nobilmente” secondo gli schemi cortesi (duenlum – il contatto individuale corpo a corpo), sconfissero facilmente i capetingi ancora legati al proprio decadente sentire cavalleresco (persino il Concilio Laterano II del 1189 vietò l’utilizzo in battaglia della balestra per tutti gli eserciti cristiani). Gl’inglesi, insomma, introducendo la tecnologia dell’arco gallese in battaglia, bararono pur di vincere al gioco bellico.

Testimoni un po’ tardivi di quell’anarchia feudale ormai in lento disfacimento, iper-individualista, che non accettava ordini neanche dall’autorità reale, né intendeva piegarsi ad una qualsivoglia organizzazione militare, la cavalleria francese affrontava la battaglia a viso aperto, frapponendo tra sé e la morte la sola fiducia nel proprio “valore”, per dirla con Nietzsche: “un’autosufficienza che trabocca e si comunica a uomini e a cose”. Perdenti fisiologici, destinati a provare continuamente il proprio coraggio e la propria valentia attraverso il “gioco” che la guerra simboleggia, bellatores per “necessità” esistenziale, uomini che non volevano concedere questo privilegio al volgo, assumendo totalmente su di sé gli onori e gli oneri della vittoria o della sconfitta: l’aristocrazia del fiordaliso di quegli anni sembra rappresentare una delle tante immagini di ciò che ancora Nietzsche credeva essere un tangibile “segno di nobiltà”: “mai pensare di abbassare i nostri doveri a doveri di tutti; non voler deporre, non voler dividere la nostra responsabilità; annoverare tra i propri doveri i propri privilegi e il loro esercizio”. Farsi incontro al proprio fato – sosterrebbe forse un cavaliere di “lignaggio aristocratico” -, mantenendo però fieramente autocoscienza del proprio essere, senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di una vittoria o di una salvezza che prescinda da esso – è meglio la sconfitta, o la morte se occorre, rispetto alla perdita della dignità, al doversi fare altro da sé.

Non c’è dubbio che quegli uomini vennero sconfitti, ma se perdere significa mantenere “francamente” autocoscienza di ciò che si è per non scomparire, io sto coi perdenti e coi vinti. Perché in fondo a Maupertuis si combatté tra due eserciti che volevano vincere per motivi diversi, persino antitetici tra loro: chi lottava per aggiungere nuovo potere (senza però nessuna intenzione di attuarlo) e chi, invece, combatteva per dare un senso a sé stesso e alla propria consapevole potenza.
Maupertuis fu insomma una tragedia nel senso classico dell’accezione. L’inizio della velocissima ed inarrestabile ascesa della mentalità moderna personificata dagli yeomen, dagli “uomini liberi” e dalla mentalità calvinista borghese. Quell’ormai radicata forma mentis del “fine giustifica sempre i mezzi”, della disonestà, della slealtà travestita da innovazione, dell’opportunismo e della vendita di sé stessi, purché questi strumenti permettano di ottenere poi il successo, uno status quo o una posizione sicura nel sociale.

Nonostante il declino e l’oblio della memoria, ancora oggi i cavalieri di Maupertuis sono attualissimi. E lo sono soprattutto per chi non vuole accettare di sottoporsi a squallidi clan, a consorterie, a lobby o a partiti, pur di arrivare. Per chi rifiuta di lucrare sfruttando le difficoltà altrui, per coloro che rinunciano alle facili lusinghe e alle scorciatoie pur di rimanere fedeli a ciò che credono, intimamente, di essere.
Perché scegliere quindi di stare coi decadenti e perdenti cavalieri francesi medievali? Perché lottare per una sconfitta sicura quando si potrebbe invece scegliere di barare al gioco della vita ed ambire così, almeno in potenza, ad un successo riconosciuto dalla “civile” società dei baciapile? Perché come diceva ancora una volta Nietzsche: “l’anima aristocratica ha un profondo rispetto di sé”.  

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