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giovedì 3 marzo 2016

Lavoro: una nuova etica è possibile?

In un frammento contenuto in Aurora, Nietzsche allude ad un’utopica “classe impossibile”: “povero, lieto e indipendente! – queste cose insieme sono possibili; povero, lieto e schiavo! – anche queste sono possibili”. Evidentemente impressionato ed ispirato dall’ormai travolgente Rivoluzione Industriale, il filosofo di Rӧcken, nella seconda parte del suo intercalare, si riferisce proprio a quegli operai, formichine operose ridotte ad ingranaggi di una macchina che li aliena e li sovrasta, come accessori dell’umana inventiva tecnica”.


Tuttavia, oltre all’evidente carattere critico e di denuncia, Nietzsche, seppur sommariamente, traccia la strada per una nuova possibilità di uomo-lavoratore, persino per una nuova etica del lavoro. Indipendente e lavoratore, non sono oggi sinonimi, checché ne dica l’odierno lavoratore salariato, che chiama col termine “indipendenza” l’acquisita possibilità di acquistare “col sudore della fronte” ogni nuovo oggetto capace di soddisfarne i drogati bisogni materiali.
Eppure non sempre il lavoro è stato spersonalizzante e mortifero: come può infatti essere indipendente un individuo che ha un prezzo?. Nella società preindustriale, ad esempio, il laboratores (alias “faticatore”) non era completamente separato dai mezzi di produzione utilizzati, non sottostava all’etica depressiva della competizione (gli statuti artigiani e di arti e mestieri del due-trecento condannavano, anzi, questa pratica), non si faceva dettare i ritmi di lavoro dalle macchine, dai cronometri e dalla produttività, che sono invece le grandi novità introdotte proprio dalla Rivoluzione industriale.

E’ pur vero che il contadino e l’artigiano di epoca medievale lavoravano spesso più ore rispetto all’operaio industriale di oggi ma, appunto, come dice Carlo Maria Cipolla: “non doveva sottostare alla dura disciplina degli orari e dei tempi della fabbrica (…) e aveva il piacere e l’orgoglio di far uscire dalle proprie mani un prodotto finito”. Il lavoro, per quegli artigiani, coincideva quindi con la propria identità, e questo perché quegli uomini, alla fin fine, credevano intimamente che solo ciò che sapevano fare potesse diventare davvero un lavoro “serio”: un lavoro in cui riconoscersi, col giusto tempo di poter personalizzare ciò che producevano, trasmettendogli un’impronta a tal punto che, spesso, si distaccavano malvolentieri dalla loro stessa creazione (sul rapporto lavoro-identità la dicono lunga, tra le altre cose, anche i cognomi che ancora oggi portiamo: Marangoni, Fabbri, Cavallari, Cuoghi, ecc…).
etica del lavoro

I semplici lapicidi impiegati nella costruzione delle cattedrali medievali, ad esempio, si sentivano coinvolti “in prima persona” nella realizzazione di un’opera che aveva per loro e per la stessa comunità di riferimento un senso profondo incommensurabile. Quel lavoro, insomma, non era considerato come il semplice tentativo di rimpolpare il proprio curriculum con una nuova, transitoria, esperienza professionalizzante (Daverio, presentando la scultura di un capomastro che tiene in testa una scimmia – rappresentazione del diavolo –, nel museo dell’opera della Cattedrale di Wӧrms, mostra ancora una volta come l’artigiano medievale sentisse il bisogno di personalizzare quello che faceva - e lo faceva!- esprimendo nell’oggetto sé stesso).

In tal senso, l’homo faber premoderno, non ancora contaminato dalla produzione in serie e al netto delle misere retribuzioni che riceveva, riusciva tuttavia a produrre oggetti di alto livello, quando non addirittura delle vere e proprie “opere d’arte”. Ancora Cipolla si chiede come ciò sia stato possibile, ammettendo che fattori “intangibili” e non quantificabili, quali il gusto per la creazione, l’amore per il proprio lavoro, l’orgoglio per la propria abilità, il “semplice” amor proprio, dovevano avere un valore che nessuna moneta poteva interamente comprare (ancora Nietzsche, a tal proposito, ricorda: “è obbrobrioso avere un prezzo, per il quale non si resta più persone, bensì si diventa ingranaggi”).

E’ possibile allora, in un’epoca esclusivamente economica e dove tutto viene quantificato e ridotto a somma di denaro, abbozzare le basi per una nuova etica del lavoro? Un’etica che preveda, primariamente, un saper fare che sia indissolubilmente radicato a ciò che umanamente sei, perché lavorare con piacere è, innanzitutto, il primario sintomo di produttività. Un’etica che non debba sempre scovare inizialmente una nicchia di mercato, un’offerta adeguata, un bacino di clienti, ma che produca innanzitutto ciò che sente, che gli piace, che crede possa comunicarlo come persona, trovando magari un “mercato” adeguato in quelle altre persone che abbiano la stessa esigenza.

Un’etica ribaltata, che non si risolva nel mercato e non veda nell’altro solo un algido ed oggettivato consumatore da spennare. Un’etica del lavoro dal volto umano, fatta non da lavoratori ma da uomini.
Perché alla fin fine si ha davvero l’impressione che, come diceva Wilde: “il lavoro sia il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare”. Vivere per produrre e non, come accade spesso anche oggi, produrre per vivere.



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