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venerdì 22 aprile 2016

In Italia abbiamo la libertà d'informazione che ci meritiamo

Se la libertà di stampa significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire
G. Orwell

“In tutto il mondo la libertà di stampa è in consistente e preoccupante declino”. Così esordisce la relazione di RSF (Reporters Sans Frontiers) sulla libertà di stampa nel mondo che, anche quest’anno, arriva puntuale coi suoi titoli meritori e con le sue stroncature. L’Italia, come sempre da quando esistono queste rilevazioni, non brilla in libertà d'informazione. Anzi, peggioriamo persino di qualche posizione rispetto all’anno scorso, passando dalla 73° alla 77° posizione.

Un po’ ovunque nel mondo – continua l’indagine dei RSF - i leader politici sembrano essere “paranoici” nei confronti del giornali e dei giornalisti (qualcuno si ostina ancora a dire che dovrebbero essere i contrappesi dei "poteri forti"... in realtà lo sono sempre meno, dato il grado zerbinesco, specie in Italia, raggiunto da qualche testata che pare soffrire di bifrontismo: se da una parte guardano al marketing e alle vendite, dall’altra cercano sempre di compiacere il leader politico di turno, forse anche per rimpinguare le casse con nuove regalie).
L’Italia, tornando ai dati ricavati dalla relazione dei RSF, risulta essere il fanalino di coda in Europa. Dietro di noi si piazzano infatti solo Cipro, Grecia e Bulgaria. Persino Moldova, Nicaragua, Armenia, Lesotho e Burkina Faso – quasi fossero Eden democratici -, sono più liberi della sgangherata stampa italica.
Le cause di questa retrocessione sono da rintracciare anzitutto nell’alto livello di violenza intimidatoria nei confronti dei cronisti nostrani, e nell’”allarmante” comportamento del sistema giudiziario della Città del Vaticano contro i giornalisti Fittipaldi e Nuzzi in connessione agli scandali Vatileaks e Vatileaks 2.

Se poi RSF volesse anche “misurare” la compenetrazione del potere col sistema editoriale in generale, siamo sicuri che la classifica peggiorerebbe ulteriormente. Eppure i giornali vengono al mondo proprio per compiacere la vanità del signorotto di turno: il primo tra essi nasce in Francia nel 1631, la “Gazette” di Théofraste Renaudot, considerato il padre del giornalismo francese, era infatti controllata dal cardinale Richelieu, che vi scriveva pure.
Non ci si può allora stupire se da noi, benché con qualche secolo di ritardo rispetto all’ancien régime, più di qualche giornalista e più di qualche “gazette” sostengono apertamente ed acriticamente il leader più à la page. Cosa dovrebbe fregare a costoro dell’informazione, se poi quella stessa “informazione” è addirittura lautamente compensata? Alcuni di questi giornalisti 2.0, contemporanei e "similmente democratici", rassomigliano piuttosto a maggiordomi, a galoppini compiacenti, invertebrati servi del potere sempre ben disposti al “sissignore”. “Uomini di altri uomini”, per usare un’espressione che Bloch declinava al mondo feudale.
Ma al di là dell'informazione prona ai desiderata dal potere, c’è forse persino qualcosa di più allarmante dei coevi Richelieu e delle madame delle lobby. Come diceva Pulitzer, che si intendeva della questione: “una stampa cinica e mercenaria, prima o poi, creerà un pubblico ignobile”.

relazione Reporters sans Frontiers

E in tal senso viene appunto da chiedersi quanto possa influenzare l’informazione un popolo acritico, volutamente sottomesso, inciuchito e rintronato dall’enorme mole di notizie da cui viene quotidianamente bombardato. Un popolo incapace di fare ordine - e a cui non interessa neppure farlo -, ché per quello servirebbe anzitutto un’intelligenza autonoma, critica, consapevole, in grado di giudicare.

Quest’informazione "volgare" deve arrivare a tutti - business is business -, perciò ha bisogno di abbassare continuamente i livelli della sua offerta per aumentare così la clientela e il mercato. Deve ridursi, appiattirsi, per risultare comprensibile e conquistarsi i favori di tutto quel pubblico democratico che vuole essere informato ma poi non fa nulla, di suo, per informarsi.
E così facendo, tutto è ormai indifferente, grigio e opaco. E ogni avvenimento finisce per avere lo stesso peso e il medesimo sapore di tutti gli altri: dal tweet stravaccato che fa notizia alla saggistica più engagé. L’informazione democratica, dunque, riempie ma non spiega, al pari della democrazia rappresentativa sua parente prossima, fa scegliere ma non agire (“sento un profondo disgusto per i giornali, ossia per l’effimero, per il transitorio, per quanto oggi è importante ma domani non lo sarà più”, diceva in tal senso Gustave Flaubert).

Un popolo che sa tutto ma che non vuole capire nulla per conservarsi infine il buonumore; un popolo che denigra la casta ma appena può, sottobanco, si comporta allo stesso modo per ottenere qualche vantaggio personale; un popolo intimorito dal potere, che sacrifica volentieri anche la propria dignità per avere un tornaconto economico, non può volere anche una buona e libera informazione. E’ fatto della stessa pasta dei giornali lascivi e dei potenti immanicati. Meglio essere condotto dai pastori e dagli “uomini forti”, perché alla libertà e all’autonomia del pensiero hanno preferito il pascere nei comodi pascoli della “demos-copìa”.





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