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giovedì 28 aprile 2016

L’uomo è uno strumento, portatore di altri strumenti produttivi

Per competenza e professionalità, oggi, s’intende soprattutto quella spersonalizzante capacità di saper utilizzare “strumenti” (organi alieni all’individuo che li usa, ma che ne sostanziano tuttavia la dignità umana). Non contano più, quindi, le persone, bensì la mole di strumenti che quegli stessi individui riescono ad utilizzare.
L’uomo macchina, ingranaggio del sistema produttivo, al completamento della metamorfosi contemporanea, diventa finalmente oggetto passivo, buco da colmare, kafkiano servo: l’uomo delle macchine, gracile automa, mezzo utile al produttivo funzionamento di macchine che lo trascendono in quanto umano.

D’altronde è il mercato del lavoro che ce lo impone! Lo chiese anche Berlusconi, lo chiedono i decaloghi imprenditoriali più “vincenti” ed alla moda, lo suggerisce velatamente pure Renzi anche oggi, per non parlare del “Ministro degli strumenti”, Poletti: imparare le tre “i” – informatica, inglese, impresa – come rinnovata ontologia e religione umana.

Se le guardiamo da vicino, informatica e inglese, soprattutto nelle loro declinazioni mondane, “volgari”, nascondono la stessa strumentale voglia di occultarsi nella comunicazione. L’informatica e l’inglese servono infatti quasi esclusivamente per comunicare, informare meglio, più velocemente, allargando ad un numero sempre maggiore di persone la condivisione del proprio messaggio. E proprio in questa “comunicazione” sta tutta l’ontologia della contemporaneità “liquida” di oggi. Testimoniare una presenza, comunicare, dire senza avere tuttavia nulla da dire e da comunicare. Il comunicare per il comunicare, a prescindere. Ma così facendo, mancano proprio i contenuti della comunicazione. Essa si riduce, quando va bene, esclusivamente ad azione, a gesto estemporaneo, automatico, ad un riflesso involontario.

uomo ingranaggio

Per l’inglese, la lingua delle lingue, internazionale, il latino dei coevi democratici sociali, le conseguenze sono ancora più evidenti. E' bizzarro, ma l’uomo della strada, forse per ignoranza patita o forse semplicemente per adeguarsi ai giudizi dei “bomba” di ogni colore e schieramento, considera il “sapere le lingue” quasi come un master esistenziale: la dimostrazione plastica dell’intelligenza, la cifra della stessa cultura personale. E forse avrebbero persino ragione, se non fosse che oggi quelle lingue servono solo per il commercio e non, come sarebbe invece logico sospettare, quale volano, autentico “organo” per conoscere in profondità la cultura di un popolo “diverso”. Ma chi sa le lingue, spesso, le sa esclusivamente per mestiere, e sa, oltretutto, una lingua non lingua, commerciale, semplificata ed appiattita alle esigenze della compravendita mercantile. Ancora una volta portatore sano di strumenti e strumento a sua volta: parla tante lingue, ma non ha nulla da comunicare.

Perché imparare allora le lingue? Per trovare un’occupazione, per ordinare una birra in un pub londinese o in un bistrot parigino, con la stessa facilità con cui lo si fa nella madrepatria.

Qualche tempo fa, Nietzsche diceva che “i popoli che hanno prodotto i maggiori stilisti, Greci e Francesi, non imparavano le lingue”, ma oggi non ci sono più popoli. Ci sono invece mercati e consumatori anonimi che vogliono allacciare rapporti tra loro, sempre più stretti ed efficienti, per compiacersi poi degli strumenti a cui sono stati ammaestrati.

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