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domenica 17 aprile 2016

Referendum e trivelle: qualche cinica considerazione

  
L’occidente, almeno nell’appallante ed ormai vintage storia del suo pensiero, ha sempre visto nella logica un cardine a cui riferire le proprie azioni. Oggi, non sembra essere più così, specie in Italia. In tal senso non si capisce come da una parte le Regioni vengono nobilitate al rango senatorio dalla nuova legge costituzionale, tant’è che si parla persino di un Senato delle Regioni (74 senatori su 100 saranno infatti Consiglieri regionali), mentre dall’altra vengono invece sdegnate quando una decina di esse decidono di mettere il bastone tra le ruote al Governo Renzi chiedendo un referendum per l’abrogazione di una norma contenuta nello “sblocca Italia”. Misteri del logos-pensiero.
Molto più verosimilmente, l’unica logica, trasversale ed elementare  allo stesso tempo, che sembra animare il dinamismo dell’esecutivo trendy, prevede che siano buoni e giusti solo coloro che appoggiano la loro azione di Governo, che gli e lo “servono”. Tutti gli altri sono gufi e disfattisti, inutile ciurmaglia incapace di comprendere le proposte dogmatiche del nuovo guru, e di condividerne poi i risultati.

E mentre incalza lo scontro istituzionale con le Regioni “cattive”, col tempo ormai agli sgoccioli e Renzi che invita all’astensione sulla falsariga del Craxi d’antan che raccomandava agl’italiani di andare al mare, anche il Consiglio di Stato interrompe il silenzio per negare l’election day (l’accorpamento della consultazione referendaria con le votazioni amministrative di giugno per risparmiare qualche milione di euro e promuoverne la partecipazione). 
- Troppo tardi per cambiare il calendario – pare ne sia la motivazione.
Al di là delle beghe istituzionali, è infatti pratica ormai consueta, per chi manifesta la volontà d’intralciare il raggiungimento del quorum, spostare il referendum in modo tale da scoraggiarne l’affluenza, magari in calde e soleggiate domeniche d’estate (se solo si potesse, il sogno sarebbe far votare addirittura a Ferragosto o a Natale). 
La motivazione, nemmeno troppo velata, che sottende tali sabotaggi, è la scarsa considerazione che taluni hanno del popolo in quanto corpo elettorale autonomo e pensante. C’è infatti chi crede, non senza ragioni peraltro, che il popolo sovrano sia anzitutto un popolo bue, eternamente minorenne: - meglio la spiaggia, o lo shopping, agli asettici cameroni in cui sono spesso collocate le urne – tuonerebbe probabilmente il minus habens infastidito. A tal proposito, non sarà forse un caso se il termine “populismo” è ormai diventata la massima ingiuria politica da affibbiare all’avversario di turno.


Il quesito referendario, al netto delle markette e degli spot che stanno intasando i media compiacenti, non è tra combustibili fossili ed energie rinnovabili
Messa così sembrerebbe infatti la solita generalizzazione buona per i gonzi, siano essi allarmati ambientalisti o ottimisti razionalisti. 
Gli elettori, qualora decidessero di esercitare i propri diritti e doveri anziché recarsi a prendere il sole, dovranno invece votare su una questione piuttosto tecnica e circoscritta. Saranno chiamati a decidere se i permessi per estrarre idrocarburi in mare, entro 12 miglia dalla costa (circa 20 chilometri), dovranno durare fino al termine di scadenza della concessione, come avviene tuttora, oppure fino all’esaurimento del giacimento stesso. Detto in soldoni: se vincessero il no o l’astensione, la concessione si prolungherebbe fino all’estrazione dell'ultima goccia del giacimento (le piattaforme, è meglio specificarlo, non chiuderanno quindi i battenti, come paventa invece qualche barone del vapore).
Da qui il ragionevole dubbio che ad esempio l’Eni, che poi è anche la compagnia che detiene la maggior quantità di pozzi e concessioni, potrebbe scientemente decidere di lasciare uno sputo d’idrocarburo nel giacimento di turno per non provvedere alla bonifica e al ripristino ambientale del sito previsti dalla legge (con ovvia convenienza economica per le compagnie petrolifere). Una concessione sulla quale, a quel punto, spetterebbe esclusivamente alle lobby energetiche decidere, procrastinandone i tempi a piacimento.
Ma si sa, anche prima di Mattei, mamma Eni ha sempre avuto più di un santo in paradiso (l’Amministratore delegato viene ad esempio nominato dal Governo), come forse suggerisce anche la sgradevole querelle su Regeni di questi ultimi tempi (non è un mistero - ma tanto non te lo dice mai nessuno -, che da poco Eni abbia ricevuto l’ok da parte del Governo egiziano per lo sfruttamento di uno dei più grandi giacimenti di gas naturale scoperti, Zohr, di fronte alla foce del Nilo: una cosa tipo 850 miliardi di metri cubi di gas in un’area di circa 100 km quadrati).

Tra i maggiori rischi derivanti dalla vittoria del sì, almeno prestando ascolto ai venditori di fumo che sobillano democraticamente l’astensione, vi sarebbe in particolar modo il rischio di perdere migliaia di posti di lavoro. 
Diecimila, undicimila, tremila senza indotto, a secondo delle più o meno accurate stime di costoro (è bene, a questo punto, esercitarsi con un po' di logica spiccia: dato che il quesito referendario chiede l’abrogazione di una norma contenuta nello “sblocca Italia”, e dato che lo “sblocca Italia” è del 2014, la domanda giunge spontanea. Ma prima del 2014 dov'erano quei famosi posti di lavoro che rischiamo ora di perdere? Non li ha creati certamente ex novo lo "sblocca Italia", c’erano già! Ergo, lo "sblocca Italia" non crea né conserva posti di lavoro, così come non li fa perdere la vittoria del sì al referendum. Le concessioni, infatti, si potrebbero sempre rinnovare e rinegoziare!).
E proprio questa paura di lasciar per strada migliaia lavoratori, al netto della polemica specifica sul referendum delle trivelle, è invece una questione sostanziale, di valori, o meglio tra cosa consideriamo un valore e cosa no. Oggi, ove tutto è misurabile, quantificabile, riducibile ad oggettivo numero e calcolo razionale, ogni cosa, dalla cultura ai sentimenti umani, deve trovare una collocazione sul mercato
E' un po', se si vuole, quel "cretinismo economico" di cui parlava a suo tempo Gramsci: nella contemporaneità tutto diventa economia e merce. E il lavoro, checché ne dica la nostra “bella” Costituzione, non fa certo eccezione: il lavoro è anzitutto il sistema per procurarsi un reddito da impiegare per “fare girare l’economia”, e per fare bene la “propria parte” nel sociale. - Specie di questi tempi, che di lavoro ce n’è bisogno come il pane! – reclama l’omuncolo oeconomicus.
Da qui l’ormai metodico – e a cui abbiamo voluto, vilmente, fare il callo – aut aut e ricatto: o i posti di lavoro o i diritti dei lavoratori (Marchionne et similia), o il lavoro o la salute (Ilva et similia), o il lavoro o l’ambiente (trivelle, discariche, inceneritori di ogni sorta), ecc….
Siamo ormai costretti – e ci va bene esserlo, ché la posizione “retta” è la più comoda – a scegliere tra il rischio di perdere il salario o quello di rimetterci invece qualcos’altro.
Diciamocelo, una volta per tutte: pur di mantenere un posto di lavoro siamo disposti a tutto.
Siamo così disposti a sottometterci, magari tessendo le lodi del beato imprenditore, a trascurare la nostra dignità personale, perdendo persino contatto con noi stessi. Perché in fondo, te lo insegnano a scuola e in ogni famiglia bene, è così che si fa. Si hanno doveri solo verso chi ti paga. Come una puttana qualsiasi.
E viene infine il dubbio che le trivelle non siano costruite per i giacimenti di gas naturale o di petrolio, ma per mantenere la viltà di un popolo colluso, ormai rassegnato, belluino, molliccio, perennemente ad angolo retto ed umanamente in decomposizione.


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