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venerdì 13 maggio 2016

La libertà e lo stato di diritto in Max Stirner

Il filosofo tedesco Max Stirner non ciurla nel manico, non è tipo da andarci tanto alla leggera, la sua filosofia non è una filosofia per cuori deboli e accademici patinati, la sua è una “filosofia fatta con il martello”.
Per il suo pensiero, "la mia libertà finisce dove inizia la mia potenza”, ma tuttavia - dice il filosofo di Bayreuth - sarebbe stolto pensare che non esista alcuna potenza superiore alla propria. Cambia, semmai, l’atteggiamento che l’uomo contemporaneo ha assunto verso le nuove potenze. Le chiama, con una certa spocchia di benemerenza: disciplina, rettitudine, “stare al proprio posto”, meglio se a 90 gradi e con la vaselina a portata di mano.

Abituato a qualche millennio di subordinazione, quest’uomo molliccio ha trovato che l’essere dipendente paga e che la pusillanimità è un valore: farsi piccolo per non essere calpestato è in fondo preferibile al possedere una bava di dignità; farsi amiche quelle “potenze” che possono sempre dilatare alla bisogna; essere umile per ottenere poi un vantaggio personale che solo l’autorità costituita può accordagli, viene visto, da sempre, come acclarato sintomo di furbizia e “rettitudine”. 
E’, in definitiva, sempre la stessa religione reificata dalla “morale degli schiavi”, sostituitasi frettolosamente a ciò che Stirner chiamava invece “timore di Dio”: l'essere “senza parere”, gregario, in accordo con la “potenza” esterna a prescindere.
Gli “uomini potenti”, quelli che posseggono la forza di migliorare la situazione sociale ed economica di tutta la plebe alle proprie dipendenze (una plebe che non desidera rendersi autonoma, ma vuole solo spuntare una dipendenza più redditizia), sono quindi oggi i nuovi dei dal portafoglio gonfio e i nuovi idola contemporanei. Anche gli atei, in fondo, possono essere gente pia…

stato stirner

Se infatti nel cosiddetto periodo feudale riceviamo tutto in feudo da Dio, nel periodo liberale vige lo stesso rapporto di vassallaggio con l’uomo” – può annotare sommariamente Stirner -
Laddove prima Dio era il mediatore tra la miseria e il possibile miglioramento della condizione d'indigenza, oggi quei compiti sono invece appannaggio di altri uomini che posseggono la giusta potenza per poter elevare “spiritualmente” le tasche degli umili. Il rapporto di vassallaggio non si è quindi estinto, ma ha solo subito una mutazione. Non sembra più una questione di potere o autorità, bensì di “diritto”, perché anche in democrazia, come Nietzsche già subodorava: “se tutti fossimo uguali, non avremmo bisogno di diritti”. E il ricettacolo di quest’umanità pelandrona è proprio lo Stato, fosse anche quello molle, attenuato, della democrazia rappresentativa, di “diritto”
Egli infatti, al pari di qualsiasi altro Stato assoluto che voglia conservare il proprio status quo, mi dà la carta d’identità per essere parte di esso, buon cittadino di fronte agli altri, mi conferisce titoli e certificazioni di conformità senza i quali non sarei nulla. Da solo, infatti, non sarei umano e nemmeno cittadino… per quello serve sempre il diploma, il corso fatto all’”accademia” istituzionale, statuita dalla potenza dello Stato. Per dirla di nuovo con Max Stirner: “il diritto è lo spirito della società. Se la società ha una volontà, questa è appunto il diritto: la società esiste solo grazie al diritto. Ma siccome essa esiste solo per il fatto che esercita un dominio sui singoli, il diritto non è che la volontà del dominatore”.
Ogni diritto, in tal senso, è quini solo un diritto “estraneo”, chemi viene concesso, di cui mi si lascia, passivamente, godere. E il singolo, per Stirner, diventa in tal modo anche lo schiavo di quella società, e dal momento che ha accettato “coraggiosamente” questa sottomissione, ha persino ragione a pretendere un diritto solo se la società glielo concede, “cioè egli vive secondo le leggi della società”. Quest’impotente comunità sociale ha quindi solo il diritto di essere ciò che è in suo potere essere, null’altro (in ogni Tribunale troverà sempre il diritto del concedente diritti, e non il suo).

Anche nel sedicente imperium della democrazia, la collettività, la maggioranza, qualsiasi essa sia, sarà sempre più importante delle ragioni del singolo individuo. La maggioranza ha, in democrazia, la ragione della propria potenza nel numero, ché la sua unica forza risiede nella quantità. 
Eppure, almeno in potenza, forse quella stessa inflazionata democrazia non è la “fine della storia”, o il “migliore dei mondi possibili”, come sostiene Fukuyama, e con lui una serie vanagloriosa di domestiche del demos. Forse anche il sistema democratico è solo uno dei tanti passaggi, magari nemmeno così tanto progressivi, attraverso cui la storia degli uomini e dei loro “diritti” continua a rimodularsi. Se la democrazia, infatti, avesse davvero un senso, esso non dovrebbe forse essere quello di uscire, definitivamente, dall’impasse della minorità umana? Il tentativo di promuovere l’autonomia e l’indipendenza del popolo?
Ma un popolo libero sarebbe anche un popolo anarchico, non nel senso volgare di caotico, bensì nella sua significazione etimologica più pregnante: assenza di leader, di comando. 
Ma siamo davvero disposti a barattare la sicurezza, il nostro benessere fittizio, e il nostro ovattato mondo rincuorante, per un'esperienza di libertà
La certezza che alla fin fine ci pensi sempre lo Stato, è certo rassicurante e quest’uomo esanime di oggi non sembra voler altro che certezze, fossero anche colossali balle o pie illusioni (egli non vuole infatti alcuna responsabilità. Meglio il disimpegno, meglio pascere nel consolante giaciglio di una comune e grigia appartenenza, meglio occultarsi nell’anonimato del “noi”, anziché riscoprirsi autonomi attori del proprio volere).
Non sarà forse un caso se questo Stato di diritto assomiglia proprio alla voglia di restare eternamente minorenni e de-vertiti dei suoi liberati sudditi…

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