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lunedì 13 giugno 2016

Il mondiale del 1982, quando i vincenti furono i vinti

La vittoria ottenuta dalla nazionale italiana al mondiale del 1982 non meravigliò affatto l’empirico “catenacciaro” Brera, l’ultima raffinata penna che riuscì a trasmettere una caratura persino al dozzinale prodotto di bigiotteria calcistico: “la tua vittoria è limpida, pulita: non è neppure venuta dal caso, bensì da un’applicazione soltanto logica del modulo che ti è proprio, e in tutto il mondo viene chiamato all’italiana”. Brera ha ragione, se non avesse contemporaneamente anche torto.
E’ pur vero che quella vittoria fu limpida, pulita, persino meritata, ma talvolta, andando contro ad ogni evidenza, non sempre l’idea borghese di merito, così come l’apostrofava Stirner, risponde anche ai criteri irragionevoli della giustezza, specie se declinata all’atomizzata e partigiana sfera calcistica.

E infatti qui non si tratta esclusivamente delle manichee categorie di vittoria o di sconfitta.
Non fa ancora parte, o perlomeno non era ancora così assoluto nel popolo brasiliano, lo strabico dogmatismo del risultato n’importe quoi. Del vincere a qualsiasi costo, dei “mezzi adeguati ai fini”, della concorrenza estrogenata e totalizzante l’esistenza. Quelle sono ancora gerarchie valoriali da occidentali, da schiavisti, da vanitosi servi del capitale, che stanno però velocemente attecchendo anche nei pochi degeneri “vincenti” fautori del Brasile-Brics.
La storia dell’“auriverde” dell’82 fu infatti qualcosa più di un’epopea pallonara. Fu una tragedia nel senso aristotelico della qualificazione, greco-classico, ove si fronteggiavano la volontà e la necessità, il riconoscimento della determinazione dall’esterno e l’impulso volitivo a determinarsi in forma propria. La fragile e fulminea favola della selezione guidata da Telé Santana nasce già nel gironcino sudamericano (4 vittorie in 4 partite), ma è nella tournée pre-mondiale che nasce il mythos, e con esso pure la rovina necessaria all’idealizzazione tragica dei vinti: Zico e compagni battono per ben due volte la Germania Ovest, poi tocca alla Spagna organizzatrice, e infine rifilano un netto 7 a 0 all’improbabile Eire.

zico mondiali 1982

Quel Brasile vinse senza troppi problemi anche il proprio girone ai mondiali, non tra i più scontati, dato che dovette affrontare la temibile Unione Sovietica, la Scozia di Dalglish e Souness e infine lo sparring partner Nuova Zelanda. Ma grazie ad un cortocircuito dialettico nella pianificazione di quei mondiali, venne previsto un secondo gironcino all’italiana formato da 3 squadre che avrebbe prodotto poi le formazioni che sarebbero approdate alle semifinali.
Il Brasile dovette così vedersela con un’Italia in cui nessuno credeva, e con gli odiati rivali argentini, campioni uscenti rafforzati da Maradona. Dopo aver strapazzato proprio gli argentini per 3 a 1 nella prima partita, il 5 luglio si compì l’epilogo di quella moderna tragedia calcistica.

Ai brasiliani bastava solo un pareggio contro l’Italia per passare il turno (grazie alla miglior differenza reti rispetto agli azzurri, che pure avevano domato l’albiceleste), ma quella seleçao non era costruita per fare calcoli, né algide macchinazioni razionali. Quella squadra giocava, e anche contro l’Italia lo fece nell’unico modo in cui sapeva farlo.
Si credevano i migliori, e probabilmente lo erano (Zico lo confessò a Udine nel suo candore: “pensavamo di farvene 5”), ma il calcio, essendo sport piuttosto rudimentale e caro ai cefalopodi mono-neurali, non resse probabilmente il confronto cogli Zico, Falcao, Socrates, Eder, Cerezo, Junior, e le cose andarono diversamente.
Schierata la formazione titolare (“non giochiamo per il pareggio” ne fu l’onesto grido di battaglia, quasi fosse la consapevolezza della sofoclea Clitemnestra: “so che faccio cose inopportune, a me sconvenienti”), perse contro un’Italia irrobustita da medianacci e da rentier, seppur talentuosi.
Finì 3 a 2 per l’”italietta”, grazie alla tripletta del redento Rossi - e poteva andare pure peggio se solo l’arbitro non avesse ingiustamente annullato il gol di Antognoni - (alla fin fine fu però quel Brasile, albo d’oro permettendo, il vincitore estetico-morale del mondiale iberico. E infatti l’Italia trionfante, proprio in virtù di quel successo, si trovò presto a dover fare i conti col fardello della responsabilità. Così nella qualificazione per gli Europei dell’84 iniziano a giocare, a divertirsi, a scoprire che i piedi buoni c’erano anche nel consesso italico. Il risultato fu che gli azzurri, seppur giocando bene, non riuscirono nemmeno a qualificarsi per la competizione continentale. Sconfitta da oscene nazionali di “scarpari”, dominate, ma alla fine vincenti. Ma forse i campioni italiani si percepirono davvero tali soprattutto in quei due anni successivi all’affermazione mondiale, quando si sentirono, a buona ragione, un po’ Brasile anche loro).

Quel torrido pomeriggio del Sarrià probabilmente non segnò la “rovina del calcio” – come dichiarò successivamente Zico con una punta di rosichio -, né la fine della sua quintessenza più pura ed ineffabile. Quel giorno scomparve definitivamente dalla faccia della terra un’idea morale ed estetica. Un’idea diversa rispetto all’imperio dell’ortodossia mercantile a cui la società dell’efficienza razionalizzata ad ogni ambito dell’esistenza umana ci aveva già da tempo condotti supinamente. I brasiliani, quasi come l’eco inascoltata in una desertificata ecumene, sembravano invece portatori di valori autentici, premoderni, banalmente umani. 
E nella battaglia per la sopravvivenza, quei valori hanno perso contro l’etica utilitarista del risultato e del raggiungimento dell’obiettivo a qualsiasi costo, dell’organizzazione taylorista, dell’efficienza quale imprescindibile santino da perseguire a scapito di ogni qualsivoglia diritto ed afflato umanizzante.
E’, ancora una volta, la vittoria schiacciante della misurabile quantità sull’arbitraria qualità; del gruppo leviatano ed amorfo sul talento del singolo in-dividuum; dell’organizzazione maniacale sull’anarcoide guizzo del genio solitario; dell’abnegazione, dell’applicazione, del pressing e della praxis sul talento libero da schemi e costrizioni altere; dell’efficacia e dell’utilità sulla bellezza; dell’uni-forme militarismo sulla fantasia e sull’estro; della società mondialista dei consumi e della produzione di massa sul poco produttivo mondo premoderno artigiano e contadino.

Il 5 luglio del 1982, gli spacconi brasiliani sfoggiarono il loro abito da cerimonia, convinti di surclassare quell’Italia che rappresentava, almeno idealmente, l’antitesi del loro “futebol bailado”. Così come i cavalieri medievali di Maupertuis pensavano di andare ad un party del certamen cortese e non ad una battaglia senza regole, anche Zico e compagni credevano di far un sol boccone di quella grossolana Italia, in cui molti di loro, peraltro, giocavano. Ma gli italiani, esacerbata la lezione di Sartre: “nel calcio tutto è complicato dalla presenza della squadra avversaria”, vendettero cara la pelle. E infatti anche i giocolieri brasiliani si accorsero dopo pochi minuti dal calcio d’inizio che quella partita non sarebbe stato il palcoscenico per la magniloquenza della loro estetica, bensì una trappola escogitata ad hoc per paludare la fragile classe dei verdeoro.
Ma nonostante la machiavellica strategia ordita dallo stregone Bearzot, i brasiliani persero quella partita perché non vollero accettare di giocare diversamente da come avevano sempre fatto, anche a costo dell’imprevista disfatta sportiva. Orgogliosi e sicuri della bontà del proprio gioco, vollero rimanere fedeli a loro stessi fino alla fine, ad ogni costo, senza adeguarsi, senza conformarsi agli stereotipati canoni dell’efficacia vetero-industriale che tutto livella rendendo ogni cosa di un grigiore indifferente. Aristocratici nel senso nietzscheano dell’accezione, laddove il termine indica il “non volersi fare diversi da ciò che si è”, furono forse testimoni un po’ tardivi e romantici di valori autentici, premoderni, profondamente umani, seppur in accezione ludica, popolare, calcistica.

Credevano, gli aristocratici brasiliani, con la superiorità e la boria che è solo dei più forti, di vincere, eppure non fecero nulla per farlo. Il Sarrià come Maupertuis e Nicopoli!
Si limitarono ad essere sé stessi senza snaturarsi, a giocare semplicemente come veniva loro spontaneo, fortificati della vana convinzione che i migliori dovessero, per legge divina, vincere comunque sulle raffazzonate qualità della plebe calcistica: la cristallina raffinatezza estetica di Zico (Pelè era troppo nerboruto per essere bello; Maradona al confronto appariva persino goffo; il Ronaldo vero, il “Fenomeno”, era destituito di qualsiasi eleganza, troppo grezzo e maleducato nei movimenti, seppur velocissimi, per poter ricordare il più essenziale numero 10 dell’auriverde; i Messi e i Cristiano Ronaldo potranno anche aggiudicarsi una decina di palloni d’oro “cadauno”, ma sono troppo costruiti, fisicamente e non, per rivaleggiare con la grazia del piccolo artista della palla verdeoro), con l’insuperata saggezza tattica di Falcao e con la malinconica cultura umana del tragico Socrates.
Magari anche solo per distratta empatia, patriottismo peloso a parte, in quegli anni non si poteva che tifare per quella seleçao. All’eroe nazionale Paolo Rossi, condannato nello scandalo sul calcioscommesse prima del mondiale, preferisco il “dottore”, professionalmente e nella vita, alcolista, decadente e aristocratico (seppur in salsa sudamericana: promotore della “democrazia corinthiana” in aperta opposizione al regime militare), Socrates.

Perché al calcio non mancano le professionalità, i soldi, l’organizzazione, la programmazione, i settori giovanili e le scuole calcio modello “polli da batteria”, come vorrebbero invece farci credere i prezzolati media sportivi postmoderni. Ne hanno addirittura troppi.
Mancano invece i fuori-classe, gli extra-ordinari. Mancano, come nella società in cui si riflettono, gli uomini, quelli veri, che continuino a combattere per quello che sono: non per la vittoria, bensì per essere i migliori.



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