L’imbalsamato
Governo Gentiloni esce dal suo etereo abbiocco, e con una piroetta degna del miglior
Nureev, cancella integralmente i voucher.
Siamo alla "tetragonia" dell’orrore travestita da trashismo.
Ma si sa,
quando avverte la paura per la dissoluzione dello status quo,
ogni bravo uomo di potere è disposto a repentini dietrofront e a giravolte che
strizzano l’occhio al più evidente degli opportunismi (anche i cosiddetti riformisti diventano
conservatori quando la tremarella sale oltre il livello di guardia).
Lasciamo dunque volentieri alla grancassa della retorica la sterile questione tra quelli che
volevano abolirli completamente e coloro che, invece, avrebbero solo voluto
riformarli (vedi mini jobs alla tedesca, o magari, in uno slancio di
sincerità, una bella cedolare secca sulla paghetta). Ciononostante si sente ancora una
volta il puzzo dell’occasione persa.
Se davvero
avessero voluto sollevare uno straccio di dibattito serio, dettato dal buon senso
anziché dal tifo più triviale, avrebbero infatti dovuto destinare almeno un
pizzico di attenzione ad una domanda che rimane (e rimarrà) a lungo inevasa.
Perché la richiesta di lavoro, sempre più precario e volatile, manifesta il
bisogno del voucher quale mezzo di reclutamento?
Le risposte,
ovviamente, sono tutt’altro che scontate e a portata di cerebro.
Punto primo:
forse abbiamo esagerato col mito della competitività.
La concorrenza,
dicono le veline economiche, dovrebbe tradursi in una convenienza per il
consumatore finale (pago meno perché i produttori si sfidano a singolar tenzone
abbassando continuamente i prezzi. Tradotto sulla quotidianità, vedi mercato
libero dell’energia: una mezza balla).
Ma in realtà,
questa competizione “sana” nasce da un’altra competizione più subdola: la
guerra del tutti contro tutti, e persino dell’io contro sé stesso, per cercare
di ottenere un posto di lavoro fisso (e quando s’è ottenuto per mantenerlo). Non siamo andati poi molto oltre
al bellum omnium contra omnes…
In sostanza,
è bene che la competitività cresca, per creare le condizioni affinché il costo
del lavoro-merce si abbassi (“costo” si legge: reddito/salario). E per di più,
se non c’è lavoro, e quel poco che c’è è polverizzato, atomizzato, frantumato in una
perenne instabilità, i lavoratori che lo cercano saranno disposti ad offrirsi
per un pugno di riso, al ribasso come gli stessi “fortunati” che già ce l’hanno:
saranno tutti “felicemente” disposti a deglutire riduzioni lineari del salario, aumento
del monte ore, perdita di diritti e tutele (tutto
ciò, ovviamente, per ottenere strepitosi miglioramenti in qualità di
consumatori. Peccato non avere poi i soldi per esercitare questi splendidi
diritti!).
Punto secondo:
il viscerale mantra de “la produttività aumenta l’occupazione”.
Altra balla
munchauseniana. Oltre ad essere smentita da qualsiasi dato (dati dagli
stessi che con le frottole vanno a braccetto), è facilmente sconfessabile pure
dall’esercizio del buon senso. Se per produttività s’intende il rapporto tra la
quantità prodotta in una data unità di tempo e i mezzi impiegati per produrla,
sono più produttivo se un prodotto viene fatto da 10 impiegati, o se invece,
nello stesso tempo, viene prodotto da 5 di loro? Diciamocela una volta per
tutte: cari oves et boves, la produttività è fisiologicamente nemica
dell’occupazione e funge da stimolo per la competizione che, a sua volta, è una
zuccherina supposta per la compressione
dei diritti e dei salari.
Cosa c’entrano i voucher?
I voucher
hanno incoraggiato proprio i due assoluti ipse
dixit della nuova casta dell’eco, infierendo un ulteriore colpo alla
provvisorietà del lavoro e ai suoi accessori diritti (guarda caso la più
contraria all’abolizione è stata Confindustria, che coi voucher come lavoro
occasionale, non avrebbe nulla a che vedere).
Forse, spentosi il fumus persecutionis, i voucher ritorneranno sotto altre vesti,
o forse l’uomo contemporaneo si è talmente integrato ai valori capitalisti del profitto - riducendosi ad una subalternità volontaria -, che oggi non c’è nemmeno
bisogno di sottometterlo con la necessità e l’incapienza.
P.S.: per le suorine boldriniane che
vedono il germe delle fake news anche dalla
parrucchiera, si precisa che il titolo, volutamente provocante, è solo uno
sbracato esercizio d’ironia (dal greco eirōneía “finzione”, der.
di eírōn -ōnos “dissimulatore, finto”; trasformare logicamente
un’asserzione nel suo contrario).
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