CERCA NEL BLOG

martedì 4 aprile 2017

Dopo la cancellazione dei voucher pronta la cedolare secca sulla paghetta

L’imbalsamato Governo Gentiloni esce dal suo etereo abbiocco, e con una piroetta degna del miglior Nureev, cancella integralmente i voucher.
Siamo alla "tetragonia" dell’orrore travestita da trashismo.
Ma si sa, quando avverte la paura per la dissoluzione dello status quo, ogni bravo uomo di potere è disposto a repentini dietrofront e a giravolte che strizzano l’occhio al più evidente degli opportunismi (anche i cosiddetti riformisti diventano conservatori quando la tremarella sale oltre il livello di guardia).

Lasciamo dunque volentieri alla grancassa della retorica la sterile questione tra quelli che volevano abolirli completamente e coloro che, invece, avrebbero solo voluto riformarli (vedi mini jobs alla tedesca, o magari, in uno slancio di sincerità, una bella cedolare secca sulla paghetta). Ciononostante si sente ancora una volta il puzzo dell’occasione persa.
Se davvero avessero voluto sollevare uno straccio di dibattito serio, dettato dal buon senso anziché dal tifo più triviale, avrebbero infatti dovuto destinare almeno un pizzico di attenzione ad una domanda che rimane (e rimarrà) a lungo inevasa. 
Perché la richiesta di lavoro, sempre più precario e volatile, manifesta il bisogno del voucher quale mezzo di reclutamento?
Le risposte, ovviamente, sono tutt’altro che scontate e a portata di cerebro.

buoni lavoro inps

Punto primo: forse abbiamo esagerato col mito della competitività.
La concorrenza, dicono le veline economiche, dovrebbe tradursi in una convenienza per il consumatore finale (pago meno perché i produttori si sfidano a singolar tenzone abbassando continuamente i prezzi. Tradotto sulla quotidianità, vedi mercato libero dell’energia: una mezza balla).
Ma in realtà, questa competizione “sana” nasce da un’altra competizione più subdola: la guerra del tutti contro tutti, e persino dell’io contro sé stesso, per cercare di ottenere un posto di lavoro fisso (e quando s’è ottenuto per mantenerlo). Non siamo andati poi molto oltre al bellum omnium contra omnes
In sostanza, è bene che la competitività cresca, per creare le condizioni affinché il costo del lavoro-merce si abbassi (“costo” si legge: reddito/salario). E per di più, se non c’è lavoro, e quel poco che c’è è polverizzato, atomizzato, frantumato in una perenne instabilità, i lavoratori che lo cercano saranno disposti ad offrirsi per un pugno di riso, al ribasso come gli stessi “fortunati” che già ce l’hanno: saranno tutti “felicemente” disposti a deglutire riduzioni lineari del salario, aumento del monte ore, perdita di diritti e tutele (tutto ciò, ovviamente, per ottenere strepitosi miglioramenti in qualità di consumatori. Peccato non avere poi i soldi per esercitare questi splendidi diritti!).

Punto secondo: il viscerale mantra de “la produttività aumenta l’occupazione”.
Altra balla munchauseniana. Oltre ad essere smentita da qualsiasi dato (dati dagli stessi che con le frottole vanno a braccetto), è facilmente sconfessabile pure dall’esercizio del buon senso. Se per produttività s’intende il rapporto tra la quantità prodotta in una data unità di tempo e i mezzi impiegati per produrla, sono più produttivo se un prodotto viene fatto da 10 impiegati, o se invece, nello stesso tempo, viene prodotto da 5 di loro? Diciamocela una volta per tutte: cari oves et boves, la produttività è fisiologicamente nemica dell’occupazione e funge da stimolo per la competizione che, a sua volta, è una zuccherina supposta per la compressione dei diritti e dei salari.
Cosa c’entrano i voucher?

I voucher hanno incoraggiato proprio i due assoluti ipse dixit della nuova casta dell’eco, infierendo un ulteriore colpo alla provvisorietà del lavoro e ai suoi accessori diritti (guarda caso la più contraria all’abolizione è stata Confindustria, che coi voucher come lavoro occasionale, non avrebbe nulla a che vedere).
Forse, spentosi il fumus  persecutionis, i voucher ritorneranno sotto altre vesti, o forse l’uomo contemporaneo si è talmente integrato ai valori capitalisti del profitto - riducendosi ad una subalternità volontaria -, che oggi non c’è nemmeno bisogno di sottometterlo con la necessità e l’incapienza.



P.S.: per le suorine boldriniane che vedono il germe delle fake news anche dalla parrucchiera, si precisa che il titolo, volutamente provocante, è solo uno sbracato esercizio d’ironia (dal greco eirōneía “finzione”, der. di eírōn -ōnos “dissimulatore, finto”; trasformare logicamente un’asserzione nel suo contrario).

Nessun commento: