CERCA NEL BLOG

giovedì 24 dicembre 2015

Il ministro Poletti non può parlare agli studenti

Poletti non ha studiato e ci tiene a farlo sapere? Sembra persino vantarsene, anche se è una vanità spuntata, quella dettata dal risentimento vendicativo di un uomo che, con tutta probabilità, continua da una vita a subire torti da individui più scolarizzati, tali da traumatizzarne la sensibilità. Il perito agrario, meglio agrimensore, Poletti, durante un incontro cogli studenti della Luiss, ha suggerito di fare in fretta a laurearsi: “per non dover competere con studenti che hanno sei anni in meno”.
Studiare, infatti, almeno agli occhi del mercato del lavoro, non premia. Insomma, non importa se studi o meno, l’importante è che tu ti muova ad ottenere il pezzo di carta che ti titola, perché le Università sono considerate da costoro alla stregua di inutili diplomifici  e non invece, con buona pace di qualche secolo di paideia, luoghi in cui formarsi per diventare uomini e cittadini migliori. Poletti, evidentemente folgorato sulla via della Luiss, incalza borioso e con l’autoreferenzialità tipica di chi ce l’ha fatta nonostante le proprie competenze e abilità: “prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni”. (per un "imparziale" confronto con altri pedagoghi "pedigreesti", vedi qui)

Si, perché l’antico principio secondo cui l’acquisizione del sapere era inscindibile dalla formazione personale dello spirito (Bildung), è oggi più desueto che mai. Oggi infatti, i bravi formatori di prof(l)essione ci tengono ad informare le matricole che il sapere e la cultura, al pari di qualsiasi merce, per dirla con Lyotard: “viene prodotto per essere venduto, e viene consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi per essere scambiato”. Tuttavia, il Ministro del lavoro non ha, oggettivamente, tutti i torti. Tenta goffamente di dare buoni consigli, testimoniando per giunta col proprio esempio la bontà di quei suggerimenti. Stando alle dichiarazioni di Poletti, il sapere deve possedere primariamente un “valore d’uso”, altrimenti non è un “buon sapere”. Deve essere spendibile, utile ad ingrassare il funzionamento del sistema di produzione globale che valorizza ogni cosa in proporzione al proprio stesso meccanismo. 
E’, in fondo, lo stesso principio caro al positivismo utilitarista di stampo anglosassone, secondo cui è buono, giusto e morale, tutto ciò che possiede un’utilità, non importa se societaria prima e industriale poi. Eppure i valori, nel corso dell’ondivaga esistenza umana, non si sono sempre piegati ai precetti utilitaristici che hanno vinto oggi la partita morale. 


Poletti 110 e lode

Non c’è nemmeno bisogno di tornare alla società premoderna e preindustriale per trovare significativi esempi di quando il sapere, o la cultura più in generale se si preferisce, erano considerati una cosa “seria”, degna a prescindere dal valore d’uso mercantile. 
Marc Bloch e Lucien Febvre, ad esempio, fondarono a Strasburgo nel 1929 la Rivista Annales d'histoire économique et sociale, introducendo nuove metodologie nello studio della storia e soprattutto una nuova filosofia nella storiografia. In realtà non sarebbe stata solo la rivista in sé, ma il mondo accademico francese in generale, che si sarebbe sollevato ascoltando l’invito a non innamorarsi dello studio, pronunciato da Poletti. Perché sino a qualche anno fa la cultura era una cosa seria e non semplicemente uno strumento per ottenere un posto di lavoro.

Gli studenti francesi dell’epoca non erano invitati a “sbrigarsi per il loro bene”, bensì ad imparare: il percorso di tirocinio, di studio negli archivi di mezzo mondo, per gli storici, durava una vita intera. Essi infatti “sapevano” che per imparare serve anzitutto tempo, passione verso ciò che si fa, senza considerare il tempo di studio come uno sgradevole passaggio verso la via della beatificazione lavorativa a fine di lucro, bensì un momento privilegiato, indispensabile per la propria formazione umana, da assaporare lentamente ed intensamente, non come una gara podistica o un coitus interruptus strumentale al piacere sterilizzato dell’uomo a una dimensione marcusiano.

Un Ministro che sembra promuovere l’ignoranza attiva, le cose fatte male e sbrigativamente, “tanto per fare”, e la morale del risultato, dovrebbe essere rimosso immediatamente dalla sua carica… se solo il sapere e la cultura fossero davvero cose “serie”, riconosciute e stimate dalla collettività per la loro utilità “umana”, eudemonica, e incommensurabile.

Nessun commento: